Angkor, Gioiello dell’arte khmer
Ma ecco il Sublime. Come quando ci si avvicina ad Angkor Thom nella giungla, e appaiono le gigantesche e misteriose torri a viso quadruplo con l’arcano sorriso multiplo d’onnipotenza colossale e comprensione serena rivolto di fronte e profilo alla vegetazione immensa che le avvolge di liane e di scimmie. (Alberto Arbasino, ‘Mekong’)
“Angkor è uno di quei pochi, straordinari luoghi del mondo dinanzi ai quali ci si sente orgogliosi di essere membri della razza umana…e capire serve, ma la cosa fondamentale è, senza alcun dubbio, sentire…” ha scritto Tiziano Terzani. Infatti, pur rispecchiando una simbologia complessa, soprattutto legata alla religione e alla mitologia indù, Angkor, come tutta la grande arte, acquista un carattere di universalità e si impone su chiunque per la sua straordinaria ed evocativa bellezza. Già nel XVI secolo in Europa si favoleggiava di un’antica città sepolta nella foresta con magnifici palazzi di pietra, grandi sculture, ponti e canali; si era però restii ad attribuire un così alto grado di civiltà ai progenitori dei cambogiani e si pensava ad improbabili contatti con spedizioni di Alessandro Magno o con le legioni romane. In Oriente invece non si era mai persa la consapevolezza dell’esistenza di questa città fortificata e il complesso di Angkor Wat era divenuto nel tempo un luogo di pellegrinaggio buddista, mentre il resto dei palazzi era coperto dalla vegetazione. Fu il naturalista francese Henri Mouhot a ‘ritrovare’ nel 1858 la città di pietra: ne disegnò con estrema precisione le rovine e scrisse un diario pubblicato postumo, dando così inizio alla riscoperta archeologica di Angkor. Del grandioso complesso danneggiato da secoli di oblio, sopravvivevano solo le torri e gli edifici religiosi in pietra. Quelli civili in legno si erano dissolti e non era più funzionante nemmeno il complesso sistema di canali e bacini d’acqua, i baray, capaci di controllare le piene e regolare l’irrigazione così da permettere tre o quattro raccolti di riso l’anno, che, garantendo la prosperità, erano la premessa necessaria all’espansione politico-culturale dell’antico regno khmer. I danni maggiori sono però forse stati causati dagli ultimi decenni di guerra e dai furti di poco scrupolosi collezionisti d’arte e oggi nuovi pericoli possono venire da un incontrollato sviluppo turistico. Angkor è stata dichiarata dal 1992 patrimonio dell’umanità e posta sotto la protezione dell’UNESCO, che molto sta facendo per la sua conservazione, tra enormi difficoltà anche a causa della vastità dell’area su cui sorgono i monumenti, circa 400 kmq. La magica Angkor, più di un’unica capitale, è un insieme di nuclei costruiti nell’arco di otto secoli dall’VIII al XIV secolo della nostra era, sulla base di una concezione unitaria religiosa, pur nella convivenza di induismo e buddismo. Gli edifici rispondono ad una complessa simbologia cosmica che riproduce l’universo secondo una rigorosa simmetria: la cinta di mura rappresenta le montagne, i fossati l’oceano e le torri poste sulla cima del tempio-montagna, raffigurano le cime del mitico monte Meru, dimora di Shiva. Il tempio non era destinato alle pratiche religiose dei fedeli, ma era un luogo privato, la dimora del dio e del re e monumento funebre del sovrano divinizzato. Le gallerie esterne dei templi maggiori sono ricoperte da raffinati bassorilievi: figure di leoni, elefanti, mitici garuda alati, sinuose e sorridenti Apsara -danzatrici sacre- narrazioni di leggende indù e khmer, immagini di Shiva, Vishnu e Buddha che convivono in uno splendido sincretismo religioso. Angkor, abitata al tempo del massimo splendore da quasi un milione di persone, conta 72 templi e le rovine di moltissimi altri. La visita dell’intero complesso presuppone almeno tre giorni di permanenza, l’uso di mezzi come taxi o moto e la presenza di una guida per potersi organizzare nel modo migliore. In genere si percorrono due itinerari -il piccolo circuito di 17 km e il grande circuito di 26 km.
Angkor Wat, forse il più grande monumento sacro di tutta l’Asia e massima espressione dell’architettura khmer, è da vedere all’alba, quando il sole ne disegna il profilo scuro e imponente nel cielo, e da rivedere al tramonto, quando la luce ne riscalda i toni grigi dando vita e movimento alla sua splendida galleria di bassorilievi. Mai completamente inghiottito dalla foresta, è sempre rimasto un luogo di culto e tuttora accoglie un monastero frequentato da pellegrini provenienti da tutta l’Asia. Fu costruito fra il 1115 e il 1150 da Suryavarman II, probabilmente come sua dimora funebre ed è il solo rivolto ad occidente, che simbolicamente è la direzione della morte. Lo chiudono un fossato largo 190 metri e un muro esterno in laterite di 1000 metri per 800. Dall’ingresso principale un lungo viale lastricato e fiancheggiato da una balaustra dalla forma di serpente naga a sette teste -il capostipite mitologico dell’etnia khmer- porta al complesso centrale attraverso una grande spianata con due padiglioni-biblioteche e due bacini d’acqua. Il tempio centrale è circondato da una galleria il cui muro interno è coperto su tutti e quattro i lati da una fantastica sequenza di bassorilievi lunghi 800 metri, dove la storia khmer si intreccia ai miti del Mahabharata, il poema epico indù. Il pannello più famoso è quello che rappresenta il mito della zangolatura dell’oceano di latte, dove demoni e dei si fronteggiano per generare l’amrita, l’elisir di vita eterna. Poi una ripida rampa di scale porta in vetta alla torre principale alta 55 metri, da cui la vista spazia sull’intero complesso. Di poco successiva ad Angkor Wat è la costruzione del complesso di Angkor Thom, la ‘grande città’, cinta di mura. Cinque ponti, fiancheggiati sui due lati da 54 dei e 54 demoni, conducono ad altrettante porte monumentali sormontate da torri con scolpiti sui quattro lati il volto del bodhisattva Avalokitesvara. All’interno delle mura sparsi nella giungla ci sono i monumenti più importanti: il Baphuon, il Bayon, il Phimeanakas e la Terrazza degli elefanti. Il Bayon testimonia il passaggio dall’induismo al buddismo, e deve la sua fama alle magnifiche sculture, sicuramente tra le più belle dell’arte buddista, dove si percepisce la mistica unione tra umano e divino. Al primo e al secondo livello vi è una straordinaria galleria di bassorilievi, dove i temi epici di Angkor Wat hanno lasciato spazio a descrizioni più umane e realiste di episodi di vita quotidiana e cruente battaglie. Al terzo livello le 54 torri sono decorate su ogni lato da quattro giganteschi volti di Avalokitesvara, oltre 200 immagini, con gli occhi socchiusi e le labbra leggermente ricurve in un sorriso di ascetico distacco. E’ uno sguardo rivolto all’interno, ma capace di diffonde ovunque un senso di pace e serenità.
Altro luogo dalla oscura e sconvolgente magia è il Ta Prohm, un tempio buddista, lasciato dagli archeologi nello stato originale in cui i primi esploratori hanno trovato quasi tutti i templi di Angkor. Forza della natura e regolarità dell’arte si incontrano e si scontrano e la natura viva ha il sopravvento: muschi e licheni ricoprono le antiche pietre, le gigantesche radici della ceiba colano lungo i muri e strisciano sulle pareti, imprigionando le sculture e diventando esse stesse pilastri e colonne che reggono i templi in precario equilibrio. Da non perdere una visita a Banteay Srei, un tempio indù dedicato a Shiva, posto al di fuori dei due circuiti precedenti. Si trova a circa 40 km da Angkor, lungo una strada sterrata e per raggiungerlo fino a un paio di anni fa’ era richiesta una scorta armata, ma oggi vi si arriva tranquillamente in circa 1h30′ di auto. E’ un tempio in apparenza minuto, ma davvero unico per l’armonia delle proporzioni e le delicate decorazioni in arenaria rosa. Ritornati ad Angkor si è ancora in tempo per godere il tramonto dall’alto della collina di Phnom Bakheng, lasciando vagare lo sguardo sull’intera foresta, mentre i raggi dell’ultimo sole illuminano le torri di Angkor Wat che emergono dalla vegetazione.
ANCHE QUESTO E’ CAMBOGIA
L’aereo che mi sta portando ad Angkor sorvola a bassa quota la campagna cambogiana. Sotto di me il verde intenso della vegetazione tropicale e il verde tenero delle risaie. Degli strani laghetti dalle forme irregolari rompono l’esatta geometria delle risaie. Sono i crateri delle bombe, ferite ancora tangibili di una guerra troppo recente per non pesare sul presente, un inferno che ha lasciato un’ombra dolorosa negli sguardi della gente. Prima l’occupazione giapponese, poi la dominazione francese, i bombardamenti durante la guerra del Vietnam, la corruzione del regime, il nazionalismo esasperato e il feroce genocidio dei terribili anni dei khmer rossi di Pol Pot. Il 17 aprile 1975 entrarono in città i khmer rossi: scuole, monasteri, edifici coloniali, banche e palazzi furono chiusi o demoliti, la città svuotata, la popolazione torturata e uccisa o deportata nelle campagne in nome dell’ideologia purificatrice contro la corruzione del progresso, contro la storia, contro la tradizione. Oggi a testimoniare questo eccidio che ha fatto un milione di vittime, vi è Tuol Sleng il museo del genocidio, una ex scuola superiore trasformata nel carcere di massima sicurezza S2l: le camere di tortura sono rimaste così come sono state trovate, con i loro rozzi attrezzi, le minuscole celle, le catene, il filo spinato alle finestre, non per impedire la fuga, ma il suicidio dei detenuti. E sui muri centinaia di foto segnaletiche di uomini, donne e bambini che da qui sono usciti per essere trasferiti al campo di Choeung Ek, 15 km fuori città, dove per risparmiare le munizioni venivano spesso uccisi a bastonate. Ora uno stupa commemorativo raccoglie ordinatamente migliaia di teschi delle vittime qui ritrovate nelle fosse comuni. Quando i vietnamiti nel ’79 invasero la Cambogia costringendo i khmer a ritirarsi al confine con la Thailandia, Phnom Penh, quella che dicevano essere la più bella città dell’Indocina, era ridotta a una città fantasma. Oggi in Cambogia sono diffusi analfabetismo, disoccupazione, prostituzione e AIDS e il paese ha il triste record della più alta densità di mine al mondo ancora disseminate nelle campagne, come purtroppo testimonia l’alto numero di storpi e ciechi. Il futuro è ancora incerto, ma con le prime elezioni regolari nel 1993 e la morte di Pol Pot, sembra essere iniziato un periodo di relativa stabilità.
SCHEDA CAMBOGIA
COME ARRIVARE: il magnifico complesso di Angkor si trova a 320 km da Phnom Penh. Non essendoci voli diretti dall’Italia per la Cambogia, lo si raggiunge via Bangkok con volo diretto su Siem Reap o con scalo a Phnom Penh. I più avventurosi possono arrivarvi anche dalla capitale in sei ore di navigazione su un battello veloce lungo il Mekong e l’immenso lago Tonle Sap, cogliendo interessanti scorci di vita sul fiume e nei villaggi di palafitte.
PERNOTTAMENTO: Sia a Phnom Penh che a Siem Reap, base per esplorare il vastissimo territorio del complesso archeologico di Angkor, c’è un’ampia scelta di hotel con diverse fasce di prezzo; mentre nel resto del paese le infrastrutture sono scarse.
LINGUA: khmer, nelle zone turistiche parlato anche l’inglese e il francese.
FUSO ORARIO: + 6 ore (ora solare).
DOCUMENTI NECESSARI E FORMALITA’: passaporto con almeno 6 mesi di validità. Il visto viene rilasciato in entrata. I templi di Angkor sono aperti tutti i giorni dalle 5.00 alle 19.00.
TELEFONO: 00855 + prefisso e numero. E’ anche possibile telefonare con il cellulare.
MONETA: il riel, per le piccole spese, ma ovunque accettano dollari.
CLIMA: Il periodo migliore va da novembre a marzo, quando fa fresco e piove poco, poi la temperatura diventa sempre più alta fino ad essere torrida in aprile. Piove da maggio a novembre.
SALUTE: non sono richieste vaccinazioni, rischio di malaria soprattutto durante la stagione delle piogge.
SICUREZZA: nelle zone turistiche non ci sono rischi; il resto del paese è ancora pesantemente minato.
ACQUISTI IN LOCO: a Siem Reap al new market, come nei mercati di Phnom Penh si trovano oggetti di antiquariato e artigianato locale, sete, statuette. Nella capitale ci sono piacevoli negozi di articoli da regalo sul lungofiume.
RISTORANTI: la cucina è simile a quella cinese, a base di riso e pesce. Da non mancare a Phnom Penh sul lungofiume il mitico FCC, Foreign Correspondent Club of Cambodia, edificio coloniale, con vista sul Tonle Sap, con buona musica, libreria interna, giornali, cucina internazionale e accesso ad internet.
VISITE: è consigliabile sostare almeno un giorno Phnom Penh dove si può visitare il Museo Nazionale, con molti reperti di arte khmer, il complesso del Palazzo Reale con la Pagoda d’Argento e il tempio di Wat Phnom.
BIBLIOGRAFIA:
-Amitav Ghosh, Estremi Orienti, Einaudi 1998.
-Loung Ung, Memorie di una sopravvissuta cambogiana, Le vespe Editore, 2001.
-Paolo Pellegrin, Cambogia, Motta 1998 (libro fotografico).
-Carlo Sacco, Angkor, I Figli degli Dei, Ed Masso delle Fate 2000 (libro fotografico).
Di Anna Maspero Da Oltrefrontiera N.21 / 2001
delmonteluca
ci sono molte imperfezioni sulla descrizione dei templi, molta superficialita per il resto.la cambogia è molto di piu dei suoi templi
A.M.
Gentile Luca, vorrei farti presente che questo articolo è su Angkor e non sulla Cambogia, e di Angkor sono rimasti solo i templi. Inoltre è stato scritto circa 10 anni fa nel 2001… muoversi in Cambogia era pericoloso per le mine e fuori Angokor (a parte la capitale) si potevano raggiungere e da non molto solo i templi di Banteay Srei.