Australia, Continente nuovo o antico?
Australia, continente antichissimo: viaggio nei luoghi sacri degli aborigeni in compagnia dello spirito nomade di Bruce Chatwin.
Australia, continente nuovissimo: viaggio nel paese moderno, melting pot di diverse razze, ma con una chiara matrice anglosassone.
Continente nuovo o antico dunque? La risposta degli aborigeni alle celebrazioni di qualche anno fa’ per il bicentenario della nascita del paese, è stata: -L’Australia è troppo vecchia per festeggiarne il compleanno-. E’ infatti uno dei continenti più antichi, ormai appiattito dall’erosione, abitato dall’uomo da 40.000 e più anni. In questa terra non è però la categoria tutta europea della storia e del tempo, ma quella della geografia e della natura a prendere il sopravvento e fungere da denominatore comune alle due realtà del viaggio.
La storia e la cultura degli aborigeni non sono scritte su libri, ma nel paesaggio e nella geografia, trasmesse di generazione in generazione impresse sulle rocce, gli avvallamenti del terreno, gli stagni e i fiumi: -Our story is in the land / it is written in those sacred places. / My children will look after the places / that’s the law- scrive Billa Neidjie, poeta aborigeno. Secondo la Genesi aborigena, durante la creazione (Alcheinga o Dreamtime) delle divinità antropomorfe hanno dato forma al mondo cantando e dando un nome a ciò che incontravano lungo il loro cammino. Poi ne sono divenute parte esse stesse, addormentandosi nei luoghi chiamati dreamsites e affidando agli uomini la custodia della terra. Per migliaia di anni questi uomini hanno vissuto in armonia con la natura, di essa e per essa, senza manipolarla, ma prendendo solo ciò di cui necessitavano. L’hanno tenuta in vita avvolgendola in una fitta rete di canti, camminando lungo gli stessi percorsi (songlines) degli antenati creatori. Quest’equilibrio è stato rotto dall’arrivo degli europei: -The scrubs are gone / the hunting and the laughter, / the eagle is gone, /the emu and the kangaroo are gone from this place / .. / and we are going- ha scritto la poetessa aborigena Odgeridoo.
Oggi gli aborigeni sono circa 300.000 (su 15 milioni di australiani) e i 2/3 vivono nelle città, o meglio ai bordi di città non loro – randagi come i loro cani – raramente integrati, per lo più emarginati, vittime di alcool e analfabetismo. Soprattutto privati di ciò che dava scopo al loro esistere: la terra, il clan, la legge, le tradizioni. Ora i bianchi sembrano aver capito che il legame spirituale che univa gli aborigeni alla terra dei loro padri è ben più del mero rapporto di possesso a noi familiare. Il governo cerca, purtroppo tardivamente, di ridare loro dignità, restituendo la terra ai clan che tradizionalmente vi vivevano e adottando una politica non più di integrazione forzata, ma di autogestione finanziata. Oggi il 25% del Northern Territory (stato centro-settentrionale) appartiene agli aborigeni. Di questo 25%, parte è stato dato in concessione all’Ente Parchi (fra cui l’Ayers Rock e il Kakadu Nat. Park) ed è aperto al pubblico, parte è terra aborigena dove si può entrare solo con permessi speciali o con la mediazione di agenzie turistiche autorizzate. Risulta quindi difficile nell’ambito di un viaggio tradizionale riuscire ad avvicinare quanto rimane della cultura aborigena. Pure, ho la sensazione di averne toccato in alcuni momenti l’essenza profonda. Non direttamente, ma attraverso le pagine del libro di Chatwin (B. Chatwin, le linee dei canti, Adelphi ed.) in una sorta di simbiosi con il paesaggio che dava al racconto il colore e lo spessore dell’immagine e a sua volta acquistava attraverso la lettura un significato profondo.
ULURU
Pukulpa Pitjama Ananguku Ngurakuta” (Benvenuti nella terra degli aborigeni).
Spazio, silenzio, solitudine, sogno. La magia di colori impossibili. Il tempio di antiche cerimonie, la kaaba degli aborigeni. E noi, minga rama, formiche pazze come ci chiamano gli Anangu, noi ci arrampichiamo sul Grande Sasso, perché è l’unico modo che conosciamo per cercare di possederlo. O al tramonto, presi da sacro fervore, scattiamo decine di foto tentando di racchiuderne l’immagine. Gli Anangu hanno dato il permesso di scalare Uluru, ma preferirebbero gli si camminasse intorno, guardando dal basso le sue rughe e scoprendovi la storia dei Mala, l’antica popolazione-canguro della loro tradizione. Così come in alcuni punti chiedono espressamente di non fotografare: è il caso della fenditura triangolare chiamata Mala Puta nella roccia di Uluru, ritenuta la sacca di un canguro, culla della vita e quindi troppo sacra per poterne estrapolare l’immagine dal contesto.
All’arido centro rosso si sostituisce gradualmente un paesaggio tropicale che nella stagione delle piogge diventa foresta lussureggiante e nella stagione arida si ritira in se stesso per il caldo del sole e il fuoco degli incendi. Sparsa sulle pareti di roccia la più antica galleria d’arte del mondo, risalente in alcuni casi a 35.000 anni fa e rinnovatasi fino ad anni recenti. Oggi la tradizionale pittura aborigena continua solo su corteccia e carta, con uno stile astratto-puntinista e quotazioni di mercato anche molto alte. Mancando una lingua scritta, i dipinti servivano, con danze, canti e racconti, a tramandare la storia della creazione e la legge e hanno livelli diversi di lettura a secondo del grado di iniziazione. Davanti all’Obiri Rock un ranger bianco, giovanissimo, ci offre una possibile lettura delle pareti dipinte e poi con una sorta di devozione, ci legge alcune pagine del toccante libro di Bili Neidijie, grido d’amore per la propria terra di un vecchio aborigeno che non ha più nessuno cui trasmettere la propria conoscenza.
IL NEVER NEVER
Diretti verso il Kings Canyon, sorvoliamo con un piccolo aereo il bush semidesertico con radi eucalipti e acacie. Quella natura umanizzata dagli aborigeni, a noi appare del tutto priva di particolari umani, se non fosse per una lunga strada nera e dritta che contrasta in modo particolare con il rosso della terra. Never-never: dicono si chiami così perché chi riesce ad andarsene giura che mai più ci ritornerà. O forse perché chi ci viene ne subisce talmente il fascino che mai e poi mai se ne andrebbe. E’ per i bushmen, i cowboy australiani, l’ultima frontiera, lo scenario dell’uomo vero, ‘where men are made’.
In realtà gli Aussies (come gli Australiani amano chiamarsi), pur mitizzando l’outback, l’interno desertico, sono gente di città. Outback = fuori-dietro: una parola che rende con chiarezza il senso di estraneità con cui l’uomo bianco guarda l’interno del paese. E infatti la popolazione è concentrata in poche città costiere: a una scarsa densità abitativa corrisponde un forte inurbamento. Tanto la sopravvivenza degli aborigeni era legata ai grandi spazi (fra i Pintubi una persona ogni 200 kmq ), così per i bianchi sembra legata alla concentrazione.
LA COSTA
E questa l’altra Australia, quella nuovissima. Cook sbarca a Botany Bay nel 1770, 200 anni fa’ al posto di Sidney c’erano solo delle capanne per i deportati e i loro carcerieri.
L’Australia moderna è una sorta di appendice dell’Europa, o meglio della Gran Bretagna, in dubbio fra il desiderio di autonomia dalla madrepatria e la nostalgia per essa, che si risolve spesso in un senso di inferiorità. Treborlang, nel suo libro ‘How to survive Australia’, ha scritto: -Gli Australiani, non avendo avuto la possibilità di sconfiggere l’Inghilterra in campo aperto in una guerra di indipendenza, ora cercano di dimostrare la loro bravura per lo più cercando di vincere a cricket-. E questa matrice britannica è evidente non solo nella passione per il cricket, ma anche per il golf, la birra, nella guida a sinistra, nelle parrucche dei giudici, nello stile delle case. L’Australia si avvia però verso una società multiculturale. Infatti dal 1973 non ci sono più restrizioni di tipo razziale all’immigrazione, oggi di provenienza soprattutto asiatica. Anche se i vari gruppi etnici tendono a raggrupparsi, non si percepisce quell’atmosfera di razzismo che si respira in altre società così composite.
Lasciando il paese una delle ultime immagini è la sagoma inconfondibile dell’avveniristico edificio dell’Opera House di Sidney, così come una delle prime immagini del mio viaggio era stato il monolito dell’Ayers Rock. Sono i simboli di due mondi a parte, troppo diversi per capirsi: da una parte il pragmatismo occidentale e un dubbio progresso, dall’altra l’immobilismo degli aborigeni: -Land got to stay always the same / Law never change-(Billa Neidjie). Forse chi meglio ha esemplificato questo scontro è stato Herzog nel suo film ‘Dove sognano le formiche verdi’, il cui triste messaggio finale è che entrambi questi mondi risultano perdenti. Il Dreamtime vittima della nostra civiltà: -We know not / where lies our future track / no place forward / none back, la civiltà occidentale ciecamente votata all’autodistruzione: -White fellow you are the unhappy / you have left nature…- come ci ricorda la poetessa Odgeridoo.
Da AnM n.2 /1991
Dave
los tile delle case in Australia e’ totalmente differente da quelle inglese. Piu’ grandi, innanzitutto, e staccate, in stile americano. Chi l’ha scritto l’articolo?
A.M.
io Dave… molto tempo fa…