Identità: parola singolare o plurale?
Secondo Claude Lévi Strauss l’etnocentrismo è un atteggiamento comune all’occidente come a moltissimi gruppi umani del passato e del presente. Se non degenera in xenofobia, è utile per difendere i propri valori e la propria identità culturale e ancor di più oggi, quando la modernizzazione cancella tradizioni e riti tramandati da secoli o li trasforma in stereotipi cristallizzati e svuotati di significato. Oggi è difficile parlare di tradizione e di modernità come di due opposti, perché i due termini spesso coesistono: antenne satellitari, internet e cellulari sono sempre più diffusi anche fra popolazioni fino a ieri isolate. Il processo di globalizzazione uniforma cibi e abbigliamento, influenza modi di pensare e di relazionarsi, diffondendo le stesse idee e le stesse mode nei paesi ricchi come in quelli poveri, nei ceti più abbienti come in quelli più modesti. D’altra parte, né la nostra voglia di esotismo, né al contrario il desiderio di difendere l’integrità altrui, dovrebbero interferire con il diritto di ciascun popolo o individuo di scegliersi il proprio modello di felicità e di benessere.
All’impatto con l’Occidente resistono ancora alcune “società primitive” isolate o relegate in riserve e trasformate in archeologia etnologica. Ma sopravvivono soprattutto quelle società capaci da una parte di mantenere la propria singolarità valorizzando le differenze, dall’altra di rinnovarsi in un originale sincretismo, mescolandosi con le altre culture, compresa quella del più forte. È questa la stupefacente capacità d’adattamento, o forse meglio di tacita resistenza, di cui hanno dato prova alcuni popoli al fine di poter sopravvivere, sia fisicamente sia spiritualmente, a un’invasione. È il caso di popolazioni così diverse come gli schiavi africani deportati in Brasile e gli amerindi, che sono riusciti a mantenere i propri dei associandoli a quelli del pantheon cristiano e trasfigurando la forza vitale di Pachamama e Iemanjá in quella serena della Vergine. Come è scritto sulla lapide posta sulle rovine di Tlatelolco, la roccaforte finale degli Aztechi contro Cortés, «Non si trattò né di un trionfo né di una sconfitta, ma della dolorosa nascita di quel paese meticcio che è il Messico d’oggi», anche se il prezzo pagato fu altissimo: il genocidio di oltre il 90% della popolazione indigena. E’ lo stesso drammatico prezzo pagato dagli indiani del nord del continente in un’America che però oggi ha un presidente afroamericano, che sta portando avanti un lungo processo di integrazione dei popoli originari e di colore e che è riuscita a unire sotto un’unica bandiera immigrati di provenienze, culture, lingue e religioni diverse. Quelle americane sono società frutto di sofferte mescolanze imposte da noi colonizzatori europei che lì ci insediammo, lì deportammo milioni di schiavi e purtroppo quasi ovunque sterminammo le popolazioni originarie. Dopo oltre 500 anni dalla violenza della Conquista cui seguirono secoli di colonialismo, questa storia e queste società multietniche possono insegnare qualcosa alla vecchia Europa. Ad esempio possono insegnarci che la parola “identità” non cambia se usata al singolare o al plurale.
Liberamente tratto da “A come Avventura, saggi sull’arte del viaggiare” di Anna Maspero. – Pubblicato su il reporter – Parole Nomadi- Identità