*** (VIP: VeryImportantPost) Le mie Letture Pensieri in libertà

Il grande viaggio: la vita e la sua fine

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07/01/2020

Shelly Keagan, Sul morire, Lezioni di filosofia sulla vita e la sua fine, Mondadori 2019

Ho scelto di salutare il decennio che si è chiuso a Varanasi, il luogo dove ogni indù vorrebbe morire per poter terminare il ciclo delle rinascite. Nelle pause fra una camminata e una puja, seduta sul terrazzo della mia guesthouse guardando il Gange scorrere, mi sono immersa nella lettura di un libro che si intitola “Sul Morire” di Shelley Kagan. Un titolo scelto non a caso proprio per questi miei giorni a Varanasi. Una lettura che offre risposte in chiave occidentale alle domande esistenziali e aiuta a darsi le giuste priorità nella vita. A me ha regalato serenità e desiderio di vivere appieno il mio “terzo tempo”. Per un assaggio di questo libro ecco la mia recensione.

La morte è un argomento sgradevole e quindi cerchiamo di escluderla dai nostri pensieri. Questo libro è invece un invito a riflettervi e ad affrontarla senza paure e illusioni. Anzi, prendere consapevolezza della nostra mortalità ci può aiutare a darci le giuste priorità. 

Sul morire è un libro di filosofia, ma non come quella lontana dalla vita reale che studiavamo al liceo, bensì una filosofia capace di dare risposte razionali, motivate e comprensibili a domande esistenziali grazie a un linguaggio colloquiale e a esempi particolarmente indovinati. Che cosa siamo noi? Abbiamo un’anima, cioè qualcosa di immateriale, di distinto dal nostro corpo? Se davvero la morte è la fine di tutto, può essere un male? Se è un male, l’immortalità può essere una cosa buona? Che cosa significa per me continuare ad esistere?

Cerco di riassumente alcune tesi dell’autrice nelle quali mi rispecchio perfettamente. Lo faccio per fissare i concetti nella mia testa, ma spero che serva anche come riflessione per chi legge e magari faccia venire la voglia di approfondire. 

Non ci sono misteri nella morte: noi siamo persone dotate di vita fisica, mentale ed emotiva; il nostro corpo è una macchina stupefacente che funziona per un certo periodo, poi si rompe e anche la mente (e l’anima se crediamo esista) muore. E questo è tutto.

Non credo nella resurrezione dei corpi, e comunque una vita sempre uguale per l’eternità sarebbe un incubo: forse è per questo che le religioni che promettono la vita eterna sono scarne nei dettagli, perché consapevoli che qualsiasi cosa verrebbe a noia. Secondo altre religioni soprattutto orientali l’anima si reincarna, ma facendo questo perde la memoria della vita precedente, quindi quel nuovo essere non è più la persona di prima, non è me e nulla me ne importa.

Morire è inevitabile e la morte è la fine mia e della mia persona. Se io non esisto più come può essere un male per me la morte? Come posso averne paura? Può essere brutto e doloroso il processo del morire, ma in genere è la morte che si teme.

Secondo la posizione orientale la vita non è necessariamente un bene e quindi perderla non è un male. A esempio la prima nobile verità del buddismo afferma che la vita è sofferenza, meglio quindi liberarsi dall’attaccamento al mondo. Secondo la posizione occidentale la cessazione dell’esistenza può invece essere un male perché ci priva delle cose buone che la vita potrebbe offrire. L’alternativa sarebbe essere immortali, ma l’immortalità, anche passata a fare una cosa piacevole non può non venire a noia: è come essere continuamente costretti a mangiare cioccolatini, a un certo punto anche questo non è più un piacere. Kafka ha scritto che “il significato della vita sta nel fatto che finisce”: forse proprio il fatto che la vita non dura indefinitamente la rende un bene ancora più prezioso. La cosa migliore sarebbe poter vivere tanto a lungo quanto si vuole, finché non ci sentiamo soddisfatti. Certo, la durata della vita non è la sola cosa che conti, conta anche la qualità, ma a parità di condizioni più si vive meglio è. In realtà immagino che quando morirò sarò solo riuscito a grattare la superficie di quello che potrei avere il piacere di fare. Può essere un male quindi non il morire, ma il fatto che per alcuni di noi, forse per la maggioranza, la morte giunge troppo presto.

Nella morte non c’è solo grande variabilità, c’è anche un’imprevedibilità che ci rende difficile fare progetti. Se sapessimo quanto tempo ci è rimasto da vivere ci comporteremmo diversamente? Riflettere su questo punto ci dà l’opportunità di decidere cosa è realmente importante per noi. Bisogna essere attenti a ciò che si fa con la propria vita. Si va in scena una sola volta e non si ha una seconda chance. C’è poco tempo per rimediare ai nostri errori e questo tempo è prezioso. Non potendo far nulla per evitare la morte, ma considerando la vita un bene, possiamo renderla la migliore possibile, ottenere il massimo finché siamo vivi.

Davanti alla morte rabbia, tristezza, rimpianto potrebbero essere emozioni più sensate della paura. Ma arrabbiarsi con chi? E perché essere tristi se ho avuto la grande fortuna di essere vivo, una fortuna riservata a pochi? Forse la risposta emotiva più giusta alla morte è la gratitudine o comunque la consapevolezza di essere stati molto fortunati ad essere vivi. Il che non significa che sia sempre meglio restare vivi. Forse un giorno la vita non sarà più qualcosa a cui voler restare aggrappati per forza e sarà il tempo di lasciare la presa.

Chiaramente ho molto semplificato il pensiero dell’autrice esposto in un testo di oltre 400 pagine. In fondo però la tesi è la stessa che con parole di poeta Nazim Hikmet riassumeva in pochi versi: La vita non è uno scherzo, / prendila sul serio / come fa lo scoiattolo, ad esempio, / senza aspettarti nulla / dal di fuori o nell’al di là. / Non avrai altro da fare che vivere”.

Qui un estratto del libro.

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1 Comment
  1. Rispondi

    Francesco

    01/02/2020

    Bellissima recensione, leggerò il libro.

    Grazie.

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ANNA MASPERO
Como, IT

A come Avventura, B come Bolivia , C come Colombia, M come Mondo… ma anche C come Casa e Cascina Chigollo… Potrebbe essere il titolo del racconto della mia vita di partenze e ritorni. Da mio nonno, soprannominato “Mericàn”, emigrato in Perù e poi ritornato fra le colline della sua Brianza, ho ereditato lo spirito d’avventura e l’amore per la mia terra. Perché di queste due cose sono fatta, un po’ nomade e un po’ stanziale. Andare e ritornare, proprio come le rondini che ancora nidificano sotto i tetti della fattoria del nonno dove vivo…. “Inverno in Egitto, giugno a Parigi. Snobismo delle rondini“, scriveva Paul Morand. Il viaggio è stato per me il primo amore. A quarant’anni ho dato le dimissioni dall’Istituto Sperimentale Linguistico dove insegnavo inglese, preferendo la vita a colori del mondo che è fuori, inseguendo nuove partenze e nuovi ritorni, ma sempre con la passione e la curiosità della prima volta.


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