Lettera dall’Inferno
Ingrid Betancourt: ascoltiamo la sua voce, per dare la nostra piccola ma non inutile testimonianza di solidarietà a una donna da sei anni prigioniera nella selva colombiana. In libreria In Italia il libro della Betancourt con la risposta dei figli
Lettera di Ingrid dall’ inferno. Wiesel: leggila, se sei un uomo
Lettera dal buio della foresta. L’ha scritta Ingrid Betancourt, l’ ha trovata la polizia di Bogotà catturando un gruppo di guerriglieri, l’ ha ricevuta infine lo scorso dicembre la signora Yolanda Pulecio, colei alla quale era destinata, «mamita». Dodici pagine di scrittura regolare e densa. La prova in vita dell’ ostaggio più celebre delle Farc, dopo oltre quattro anni di silenzio. Se questa è vita. «Qui la giungla è molto fitta, i raggi del sole vi penetrano a fatica. Ma è soprattutto un deserto di affetti, di solidarietà, di tenerezza… Ho cercato di conservare la speranza così come si tiene la testa sopra il pelo dell’ acqua. Ma oggi, mamita, mi sento sconfitta… Non mangio più, perdo molti capelli, non ho voglia di niente. Credo che l’unica cosa positiva sia questa: non aver voglia di niente. Perché qui, in questa giungla, l’unica risposta è “no”. Allora è meglio non desiderare nulla». Tradotte in italiano per Garzanti, la disperazione e la forza della donna che sta annegando in un angolo della Colombia arrivano oggi nelle nostre librerie: «Lettera dall’ inferno. A mia madre e ai miei figli», Mélanie e Lorenzo Delloye-Betancourt. Che dalle pagine di questo libro rispondono: «Mamma, ci hai risvegliati. Le tue sofferenze sono diventate le nostre, la tua disperazione ora è la nostra urgenza, il tuo amore e il tuo coraggio la nostra forza… Ormai nessun vi può più ignorare». La speranza dei due ragazzi richiama l’ appello che lancia nella prefazione il premio Nobel Elie Wiesel, sopravvissuto al buio di Auschwitz: «Leggi questa lettera. Leggila bene. La voce che ti parla ti terrà sveglio la notte…». Racconta di sei anni di umiliazioni e violenze. «Qui la vita non è vita – scrive Ingrid – è solo un lugubre spreco di tempo. Vivo o sopravvivo su un’ amaca tesa tra due pali, ricoperta da una zanzariera e da una tenda che fa da tetto e mi lascia pensare che ho una casa…» Finché non arriva l’ ordine di muoversi. «Perdo le mie cose o me le confiscano, come i jeans che Mélanie mi aveva regalato per Natale, quelli che avevo addosso quando mi hanno presa… Le foto di Méla e Loli, un programma di governo in 190 punti che avevo annotato nel corso degli anni: mi hanno preso tutto. Ogni giorno mi resta un po’ meno di me stessa». Gli altri ostaggi non sono di conforto. «Parlo il meno possibile. La presenza di una donna in un gruppo di uomini che sono prigionieri da otto o dieci anni è un problema». Un diario di privazioni e sofferenze. Ogni tanto una scintilla di speranza, un sogno: «Mi vestirò di malva chiaro quando abbandonerò il verde-prigione di questa giungla…». «In nome della sua umanità e della tua – conclude Elie Wiesel -, ti chiedo di ascoltare la sua voce. Per te è poco. Per lei è un messaggio, e può essere una commovente offerta di solidarietà».
Dal Corriere della Sera del 21 febbraio 2008
Di Coppola Alessandra