Letteratura e viaggio
Se è vero che il viaggio è alle radici di molte civiltà, tra cui sicuramente quella occidentale, e se è vero che la letteratura è una delle maggiori espressioni di questa civiltà, ne deriva inevitabilmente l’esistenza, fra i due, di un rapporto privilegiato. Qualche citazione su questo legame fra libri e viaggi…
“Non mi interessa viaggiare solo nella testa, perché mi interessano le persone e le cose, i colori e le stagioni, ma mi è difficile viaggiare senza la carta, senza libri da porre dinanzi al mondo come uno specchio, per vedere se si confermano o si smentiscono a vicenda”. (Claudio Magris)
“Prendo il libro fermo alla piega, mi rimetto alla sua andatura, al respiro di un altro che racconta. Se anch’io sono un altro è perchè i libri più degli anni e dei viaggi spostano gli uomini”. (Erri De Luca)
“La mia geografia ha sempre un riferimento a un mondo letterario e fantastico. Per me, un viaggio è una ricerca che scaturisce da una lettura… I miei viaggi sono stati per me l’occasione di recarmi in un luogo che già esisteva nella mia immaginazione. Mi succede spesso che il libro scateni in me il desiderio di un viaggio, il bisogno di vedere, di verificare”. (Hugo Pratt)
“Non esiste un vascello veloce come un libro / per portarci in terre lontane / nè corsieri come una pagina di poesia che si impenna; / questa traversata può farla anche il povero / senza oppressione di pedaggio / tanto è frugale / il carro dell’anima”. (Emily Dickinson)
“Ai viaggi, come ai libri, non si dovrebbe regalare il proprio tempo. Glielo si dà in prestito col pieno diritto di esigere un tasso da strozzini”. (Alfredo Antonaros)
Fabrizio Marelli
L come Letteratura
Il viaggio come “viàtico” rimanda all’idea molto concreta di provviste, di scorte da consumare o scambiare per la via (poco etimologicamente si potrebbe pensare al viaggio come un suffisso di “via”…), luogo di incontri ma anche di scontri e di pericoli, frequentata dai briganti ma anche dal buon samaritano, dal frettoloso mercante e dal fiducioso pellegrino. Il termine inglese “travel”, d’altronde, non ci ricorda il nostro “travaglio”?
Il viaggio dunque come transazione, come scambio quasi osmotico con l’altro non più di merci, ma di ciò che più è prezioso: emozioni, sensazioni, esperienze. Il bilancio tra il dare e l’avere potrà anche non essere positivo: sta qui, forse, la radice della paura del viaggio, la paura di ciò che accadrà per la via alle nostre “provviste interne”. Questa è in fondo l’avventura, quello che dovrà “advenire” a chi intraprende un viaggio, così diversa dalla ventura (non solo etimologicamente) di chi aspetta passivamente o troppo prudentemente il compiersi inesorabile della propria sorte o destino. Campione d’avventura è senz’altro l’Ulisse di Dante, non tanto per i chilometri percorsi, ma per “l’ardore / ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto, / e de li vizi umani e del valore;”: in quell’ “esperto” così pregnante a fine verso si percepisce nettamente sia il profumo inebriante di un fugace amore , sia l’afrore del corpo del nemico in battaglia. Nemmeno l’amore e l’affetto per il figlio, il padre e la moglie lo possono trattenere; ma sono altri i motivi per cui finisce in Malebolge.Sempre Ulisse: “ma misi me per l’alto mare aperto”: in quel pronome posposto, così scomodo, forzato e dissonante, vi è tutto il travaglio che porta alla formazione di una volontà consapevole e sofferta di chi si appresta non solo fisicamente a partire. Il viaggio è, in ultima istanza, la voglia, l’intenzione di conoscere (l’Ulisse di Joyce?), di far conoscere e di scambiare con l’altro le nostre “provviste interne”. Poco contano i chilometri: la meta può essere vicina, addirittura visibile in lontananza, come il Faro per James di “To the Lighthouse”. Il titolo originale è di per sé un capolavoro: la non menzionata gita sarà alla fine soltanto un pretesto per scoprire, anche dolorosamente, qualcosa di essenziale.
Fabrizio