Perdersi a guardare
“Il linguaggio fotografico e il linguaggio della scrittura sono diversi, ma sono due modi complementari che si integrano per captare la realtà”. Parole di Fosco Maraini che perfettamente riassumono la sempre maggiore contaminazione di generi e mezzi espressivi necessari per interpretare la complessità del mondo. Su tutti prevale il canale visivo, tanto che parlare oggi di civiltà dell’immagine è ormai ripetere un luogo comune.
Un aspetto che è ancora più evidente se si restringe l’analisi al mondo del viaggio, tanto da poter affermare che non c’è viaggio senza fotografia.L’apparecchio fotografico accompagna fin dai suoi esordi i viaggiatori ed è sempre più diffuso grazie ai progressi tecnologici e all’abbassamento dei costi. E se non bastasse, l’immagine è lo strumento perfetto per la promozione dei viaggi: sono soprattutto le foto che ci guidano nella scelta delle destinazioni e su di esse si basa il sistema di attese emozionali che dà forma all’immaginario turistico.
Come evitare allora di riportare a casa dai viaggi una rappresentazione del mondo formato cartolina? Prima di tutto bisogna cancellare proprio quelle immagini stereotipate che abbiamo impresse nella retina e guardare con occhi nuovi, o forse meglio, lasciare che sia il mondo a guardarci e ricambiarne lo sguardo. Un’interazione ben diversa dalla passività in cui è di norma relegato il “soggetto” fotografato. Se la fotografia è nata con la pretesa di rappresentare e testimoniare la realtà, oggi siamo consapevoli che può solo offrire una fra le diverse interpretazioni possibili. Non dobbiamo allora limitarci a una semplice descrizione con pretese di oggettività di come è il mondo o peggio mistificarlo, dipingendolo nostalgicamente com’era o come vorremmo fosse. Ora che tutto sembra “déjà vu” perché già visitato e descritto, bisogna raccontare il mondo nel suo divenire e porre attenzione a quei dettagli capaci di coglierne l’anima nascosta. Quella luce che è parte dell’etimologia stessa del termine “foto-grafia”, deve illuminare ciò che sta sotto la superficie delle cose lasciando, che lo sguardo scavi in profondità. Le immagini di un volto, un gesto, un paesaggio possono avere una capacità evocativa straordinaria e suscitare la stessa emozione di una poesia, con il vantaggio di parlare un linguaggio universale negato al verbo dopo la maledizione della torre di Babele. Benché visuale, la fotografia può restituire odori, sensazioni tattili, rumori e sapori, ma solo facendo ricorso alla memoria interiore di ciascuno, sempre che quelle esperienze siano state parte del viaggio e l’aspetto visivo e compulsivo della ricerca di immagini non abbia prevalso.
Per fare foto non solo belle – obiettivo oggi relativamente semplice -, ma anche buone, bisogna andare oltre la tecnica e l’estetica. Serve un progetto e un filo narrativo a legare le immagini proprio come in un racconto, dando la propria interpretazione della realtà. Anche se non siamo professionisti, ma solo visitatori di passaggio, servono tempo, flessibilità, sensibilità, rispetto e passione. Dobbiamo “perderci a guardare” come scriveva Mimmo Jodice. Solo allora la macchina fotografica, da diaframma che si frappone fra noi e il mondo, può trasformarsi in uno strumento per penetrare la realtà e per rapportarsi alla gente. Solo allora potremo restituire un’immagine significativa e non solo descrittiva del mondo, trasformando la visione in comprensione.
A.M.
Pubblicato su il reporter
caterina
Leggo con vivo piacere, e interesse, quanto scrive l’autrice sul come ottenere una fotografia che non sia solo un’immagine: fredda, scarsamente signifcativa, ma dotata di linguaggio universale.
Se è compito di chi la scatta fare in modo che essa parli è anche compito di chi la osserva perdersi per “vedere”dal momento che guardare è solo il primo passo sulla via della comprensione vera.
Il saggio illumina anche i non esperti e rimane, al di là delle parole, un invito
a fare – del viaggio – un punto di arrivo e di partenza non separati.
Nell’attimo dello “scatto” chi regge la macchina fotografica e chi è fotografato sono una unità, fulminea… ma sempre unità.
A.M.
Grazie Caterina.
Il suo commento è una profonda riflessione che offre spunti per andare oltre quanto scritto. E’ il bello del web 2.0. Riuscire a dialogare, a confrontarsi, a essere contemporaneamente scrittori e lettori.
In effetti al momento dello scatto, se è un incontro riuscito, fotografo e fotografato sono entrambi soggetti. E poi c’è, come lei dice, il terzo attore, quello a cui quell’immagine aprirà una finestra su un angolo di mondo…
enrico
Ci si ferma a guardare perchè si è “persi” Anna, perche ci si ritrova “persi” davanti a piccole grandi cose che non sapevamo di conoscere e che ritroviamo per caso lungo la strada del nostro viaggio. A volte mi capita di fermarmi e sedere davanti a una vecchia scuola di campagna o davanti a un antico portone scrostato oppure a guardare un bambino che gioca in un cortile mentre i nonni cucinano chissà cosa e un filo di fumo nero si alza. Queste cose mi parlano in silenzio…e io ascolto..a volte per ore.
marco
Infatti è proprio così: un pezzo di A…come avventura che ci teniamo in tasca…
saluti da marco
annamaria
“Perdersi a guardare è fondamentale” per guardare il mondo e la realtà da una giusta prospettiva… se riuscissimo a guardare oltre, vedremmo anche dove vanno le nuvole…
A.M.
grazie a tutti…
è proprio questo di cui parli Enrico un esempio di quel paesaggio interiore (o emozionale come va un po’ di moda dire ora), che abbiamo “perso”, un poco perchè va scomparendo, un poco perchè non siamo più capaci di fermarci a guardare e ascoltare…, anna
Cinzia
io guardo sempre le nuvole e ogni volta rimango affascinata e colpita da ciò che vedo…
A.M.
tu sei un’anima in cammino cara Cinzia…
Salvatore
passo intere ore fermo a guardare..volti per lo piu’ spinto da una folle bulimia antropologica che mi spinge continuamente a cercare le sembianze delle persone che ho amato o anche quelle che amo tuttora come se potessero improvvisamente apparirmi e sovrapporsi ai mille volti che mi circondano
Carmen
ci sono tanti modi di fotografare, si sà..a secondo delle situazioni, ma l’unicità, non facile, è quando si riesce a raccontare..la propria storia..dell’anima, appunto, attraverso le cose..che ci stanno intorno del mondo, come lo scrivere, o il disegnare, etc. e riuscire a trasmettere qualche emozione.. anche agli altri, io è da tanto che ci tento..è difficilissimo!!
Antonio
ottimo spunto, grazie a te! foto-grafia…. Rilancio: significa scrivere CON la luce o scrivere LA luce? 😉 e per quanto riguarda le nuvole…io sono un loro amante. L’altra sera, durante un reportage fotografico dell’inaugurazione della marcia mondiale per la pace, ho conosciuto un gruppo musicale toscano. SI chiamano Train de Vie ed una delle loro canzoni piu’ belle si chiama proprio “cacciatori di nuvole”. TI invito ad ascoltarla. All’inizio del secolo scorso, il grande fotografo Stieglitz pubblico’ un libro “Equivalent” esclusivamente di foto di nuvole. Diceva che queste rappresentano qualcosa che e’ gia’ dentro l’autore ma che non ha ancora preso una forma chiara. Bellissimo
A.M.
non so Antonio, la luce per me è quella che illumina il soggetto, gli dà vita. In fondo si dice “venire alla luce” per nascere… Anche se talvolta può diventare essa stessa il soggetto. E le nuvole, sì, sono davvero un ottimo soggetto di riflessione… prima o poi ci provo a fermarmi non solo a guardarle…
Roberto
la descrizione del vero significato di “fotografare”, qui descritto, mi colpisce profondamente; credo non si potesse esprimere meglio il concetto dell’atto in se di scattare ed immortalare un istante; appunto una frazione di secondo che non deve essere per forza un’opara d’arte di tecnica ed esposiziona ma bensì, come solo un quadro sa trasmettere quando realizzato con l’anima del pittore, trapela l’emozione, il riflesso di colui che ha colto l’intensità del momento;
questo articolo rende onore al vero significato di fotografare, alla poesia che rende differenti le persone che vivono con il cuore ed amano condividere le emozioni, spesso anche fotografandole;grazie Anna
Enrico
Cara Anna, tu scrivi :”queste raramente si traducono in incontro con chi vi abita, nonostante le buone intenzioni del viaggiatore “responsabile””. Riflettendo su questa tesi ho scoperto che io viaggio , in realtà, solo per incontrare esseri umani all’interno di contesti nei quali la mia “stranieritudine” è un elemento di forza, un energia in più dentro la chimica dell’incontro.
Se ripercorro alcuni viaggi mi accorgo di quanto alcuni fugaci incontri abbiamo segnato profondamente il mio percorso evolutivo, di quanto siano stati “specchi” attraverso i quali scoprire aspetti di me di cui non ero ancora consapevole. La coppia di anziani contadini che mi dicono poche parole incomprensibili mentre cucinano nel cortile e un loro nipote corre allegro intorno alla casa, mamma, nonna e il figlio piccolissimo che mi offrono un caffè dentro una casa semidiroccata con ancora sui muri i segni della guerra, la barista di un chiosco sperduto di una strada solitaria che mi suggerisce con un sorriso cosa mangiare, due bambine orfane che si stupiscono della peluria sulle mie braccia (evidentemente non avevano mai visto un avambraccio maschile), l’educatrice che si circonda di bambini quasi fossero il suo vestito quotidiano, l’ubriaco che mi racconta di conoscere l’Italia perché ci è venuto con il circo medrano, l’insegnante volontaria che porta la sua lingua a migliaia di kilometri dal suo paese…..potrei continuare per ore…. ebbene Anna, credimi, questi fugaci incontri mi hanno lasciato dentro immagini-emozioni che rappresentano pietre miliari del mio percorso di conoscenza e di consapevolezza di me stesso. Questi fugacissimi contatti sono i veri “incontri” della mia vita. Questi brevissimi momenti sono state porte attraverso cui scoprire nuovi mondi. Possiamo inserire migliaia di elettrodi nell’acqua della nostra esistenza ma solo quando tra questi vi è una differenza di potenziale che si scatena la reazione. E basta un istante, un fugacissimo istante.
Un caro saluto
Enrico
A.M.
Caro Enrico, grazie della lunga riflessione. Mi trovo in profonda sintonia con le tue parole. Gli incontri sono “rari e preziosi”, ma accadono. Solo però a chi ha l’animo aperto. Si traducono, come anche tu dici, in emozioni e conoscenza soprattutto di se stessi. Ed è vero: è proprio la differenza a fungere da specchio, come quando studiando l’inglese capisci le regole dell’italiano (con gli esempi sulle lingue me la cavo meglio che con quelli di chimica…). Forse è per questo che certe esperienze del “turista responsabile” di visita di progetti, cooperative e similari non sempre regalano quell’incontro di cui si era alla ricerca.
Perché si era alla ricerca non tanto di contenuti, ma di emozioni o di empatia come mi piace dire. Anche per me spesso il ricordo, l’immagine di un mio viaggio coincide con un volto e a questi volti ho dedicato un capitolo nel libro A come Avventura. Confesso però che gli incontri con persone non sono la sola motivazione che mi spinge a partire. Talvolta anche un luogo è capace di trasmettere la stessa magia e la lontananza aiuta comunque a guardarsi con il necessario distacco, prendendo un poco le distanze dal sé di sempre. Ancora grazie, Anna