Prendere o perdere le distanze?
Proviamo a socchiudere gli occhi e ascoltare, toccare, accarezzare, odorare. Proviamo a “perdere le distanze” invece che a “prendere le distanze”…
Partiremmo per un viaggio senza macchina fotografica? A malincuore probabilmente, ma in fondo scattare foto non è il solo modo per catturare immagini. Si può disegnare su un taccuino di viaggio, comperare un libro illustrato o semplicemente custodire nella propria mente il ricordo di luoghi e persone. Probabilmente però non saremmo disponibili a fare un viaggio bendati, perché la vista rimane il canale percettivo primario per il godimento del viaggio e per custodirne il ricordo. Così vero che risulta difficile anche solo cercare di raccontare in prima persona un luogo senza utilizzare il verbo vedere. Spesso tendiamo a misurare la riuscita di un viaggio proprio dalla quantità di fotografie che riportiamo a casa nelle memorie dei nostri apparecchi. Un piacere forse più da collezionista di luoghi che da viaggiatore, ma diffuso in un’epoca che si nutre di immagini. Ed è proprio a quegli scatti che spesso deleghiamo il ricordo di luoghi e persone. Un primo utile esercizio per riappropriarci della vista è quello di fotografare anche mentalmente, osservando e gustando i dettagli. Guardare e non necessariamente fotografare. Ma anche guardare e non soltanto vedere, come invece ci accade nella routine quotidiana.
Un esercizio altrettanto efficace per non rischiare l’atrofizzazione degli altri sensi è quello di provare ogni tanto a non usare il canale visivo. E’ sufficiente socchiudere gli occhi e ascoltare, toccare, accarezzare, odorare… Come quando da bambini si giocava a mosca cieca e magari si riusciva a intravedere confusamente il contorno delle cose da sotto la benda. Si tratta di “perdere le distanze” invece che di “prendere le distanze”, perché, mentre vedere presuppone appunto una distanza, gli altri sensi hanno bisogno di vicinanza o addirittura di con-tatto. Nel quotidiano siamo imprigionati da automatismi percettivi derivanti dall’abitudine che portano all’assuefazione e ci impediscono di “sentire” in senso lato. Un meccanismo che è mentale ma anche fisico-chimico, come è evidente quando rimaniamo in un’aula chiusa e affollata per un certo periodo di tempo e non ne percepiamo più l’aria viziata, immediatamente avvertibile invece da chi viene dall’esterno.
In viaggio possiamo lasciare spazio e tempo alle percezioni senza particolari finalità e senza le interferenze degli impegni quotidiani. Siamo più liberi da sovrastrutture e abitudini, siamo permeabili e attenti a ciò che accade. La curiosità ci porta ad allentare le difese e ad allertare i sensi. Desideriamo fare esperienza di cose, luoghi e persone. Perché il viaggio è proprio questo, come si evince dalla comune origine indoeuropea dei due termini “esperienza” e “andare”, ancora riconoscibile nella radice “per” presente nell’inglese “fare” e nel tedesco “fahren”, che significano appunto viaggiare. Fare esperienza è ritrovare il piacere – e la nostalgia – del silenzio e del rumore della pioggia, del profumo di fieno e di terra bagnata, del sapore di un frutto colto da un albero e dell’acqua bevuta alla sorgente, del camminare a piedi nudi e della stretta leggera di un bimbo che ti prende per mano. Solo così il viaggio diviene appropriazione fisica dei luoghi e comunione con le persone. Altrimenti sarebbero sufficienti un documentario o un libro.
Se fare esperienza è necessario, non è però sufficiente. Bisogna “attivare tutti i cinque sensi, porre sulla stessa linea gli occhi, la mente e il cuore”. E’ una famosa frase di Cartier-Bresson riferita alla fotografia, perfetta anche per il viaggio, che per essere tale e non semplice vacanza, deve essere esperienziale, emozionale e mentale. Fuori e dentro per riprendere ancora una volta le parole di Terzani. I sensi per percepire il fuori. Le emozioni e i pensieri per portare dentro le percezioni, nel cuore e nella mente. E per trasformarle in ricordo e forse in racconto. Solo allora la nostra mappa sensoriale diventa una geo-grafia emozionale e mentale, la nostra personale “scrittura della terra”.
A.M.
Pubblicato su il reporter
Marco
perderle, sicuramente.
Mauro
Ricordo un bellissimo articolo di un cieco che raccontava nei dettagli la sua vista in centro città a Como accompagnato da un giornalista. ( con immagini ricchissime) In questo senso stò preparando un giornale “oltre il giardino” -scritto con persone con problemi psichici del Centro Diurno – proprio per la ricchezza di cogliere con lo sguardo altro…. ciò che si vede “oltre il giardino” ( tra l’altro film eccezionale con Peter Sellers )…
A.M.
ciao Mauro… Oltre il Giardino credo sia il film che più ho amato…