Rapa Nui: Il Fascino dell’Altrove
Viaggio nella misteriosa Isola di Pasqua, dove i giganteschi moai osservano immoti, con occhi di pietra, il mare, il cielo e le stelle
L’Isola di Pasqua, chiamata in lingua polinesiana Rapa Nui, “Grande Roccia”, è davvero un’isola perduta nello spazio, e chi vi sbarca prova immediatamente una sensazione di spaesamento e di vacuità, accentuata dall’aura di mistero emanata dai suoi possenti giganti di pietra, i moai.
Mai il vocabolo “isola” è stato più appropriato: un triangolo di terra di 180 kmq, arido, spoglio, coperto di rocce laviche, battuto dal vento e dalle onde. Intorno, solo l’immenso oceano e un orizzonte che si perde all’infinito senza ostacoli allo sguardo. E’ l’isola più lontana di ogni altra da qualsiasi terra: 1900 km da Pitcarin, l’isola degli ammutinati del Bounty, 4000 km da Tahiti e 3700 km dal continente sudamericano, da quel Cile cui appartiene politicamente, ma di cui non si sente parte.
Per gli abitanti è semplicemente “la Isla”, così come per i loro progenitori era “Te Pito O Te Henua”, l’“Ombelico del Mondo”. Tremila residenti, in parte originari dell’isola e in parte del continente, vivono raggruppati in un solo centro, Hanga Roa, mentre nel passato i diversi clan erano distribuiti sull’intera superficie, e la popolazione raggiungeva anche i 15.000 abitanti. Ora il resto del territorio è popolato solo da cavalli bradi e da moai.
Sono quasi 900 le statue che punteggiano l’isola, tutte simili ma nessuna identica, e ricordano nelle loro fattezze sia i Tiki polinesiani che le statue del sito preincaico di Tiahuanaco in Bolivia. Non è chiaro se rappresentino degli antenati o dei potenti o delle divinità, ma probabilmente fungevano da tramite fra gli dei e gli uomini. Sono alte da poco più di un metro fino ai 21 metri di El Gigante, con torsi dai caratteri maschili, braccia lunghe, mani sottili, grandi volti ieratici, nasi pronunciati, orecchie allungate, la schiena talvolta incisa come se fosse tatuata.
Nelle cave di tufo del vulcano di Ranu Raraku molte statue sono solo sbozzate, ancora sdraiate o capovolte, foggiate seguendo la conformazione della roccia nel più grande laboratorio all’aperto esistente al mondo; altre sono già rifinite, ma ancora attaccate alla montagna tramite una sorta di cordone ombelicale non ancora tagliato; alcune, già pronte per essere trasportate alle loro destinazioni lungo la costa dell’isola, stanno ritte sulle pendici interne ed esterne del vulcano, fra cavalli che si abbeverano in una laguna dove cresce la totora (balsa).
Ranu Raraku fu abbandonato improvvisamente, forse a causa di un cataclisma o di un’epidemia o di una guerra fra clan. Meno di 300 furono le statue trasportate e erette su basamenti detti ahu, con immane sforzo e tecniche su cui si possono fare solo supposizioni, probabilmente utilizzando tronchi e un sistema di leve. Furono poi scalzate dai loro ahu durante lotte tribali e solo in questo secolo in parte riposizionate.
Vicino alla cava, sulla spiaggia di Ahu Tongariki, c’è il centro cerimoniale più ampio della Polinesia: 15 moai formano di nuovo una lunga teoria su un grande ahu. Silenziosi, impassibili, le sottili labbra serrate, lo sguardo rivolto all’interno dell’isola a protezione dei villaggi, le spalle al mare: quale nemico poteva infatti arrivare da quell’immensa distesa d’acqua? Soltanto ad Ahu Akivi sette moai guardano il mare, rivolti a ovest, verso le isole Marchesi, da cui probabilmente erano venuti i primi intrepidi abitanti. Intorno, statue divelte, teste semisepolte, acconciature di tufo rosso rotolate lontano. E poi silenzio, solitudine, senso dell’effimero.
Rapa Nui è un microcosmo che diede vita ad una cultura unica. Purtroppo, l’aumento della popolazione, i dissesti ecologici causati dalla costruzione dei moai, le feroci lotte fra clan rivali e il quasi annientamento delle tribù ad opera dei bianchi ne segnarono la fine. A causa di tale declino e della sovrapposizione della religione cattolica, la trasmissione orale dell’antica cultura venne interrotta; anche la lingua scritta di tipo pittografico, di cui rimangono pochi esempi sulle tavolette rongo rongo, è tuttora senza chiave di decifrazione.
Gli abitanti attuali stanno cercando di riscoprire le proprie radici e ritrovare orgoglio e senso di appartenenza, ma inevitabilmente vivono un presente incerto a cavallo fra un passato che hanno perduto e un futuro che, così lontani da tutto e da tutti, difficilmente possono far proprio.
Il grande viaggiatore Pierre Loti scriveva: “C’è nel mezzo del Grande Oceano, in una regione dove non si transita mai, un’isola misteriosa. Essa è piena di alte statue mostruose, opere di razze sconosciute, oggi scomparse. Il suo passato rimane un mistero”.
Oggi questo mistero è in parte svelato. Anche se la storia conosciuta di Rapa Nui comincia il giorno di Pasqua del 1722, quando vi sbarcò una flotta olandese, sappiamo ora qualcosa di più anche sul periodo precedente. Molto improbabile è l’origine sudamericana della popolazione sostenuta dall’esploratore norvegese Thor Heyerdahl, che divenne famoso quando nel 1947 partì dalle coste del Perù e raggiunse un’isola polinesiana su una barca di totora, il Kon Tiki. Tutti i dati archeologici, linguistici e genetici evidenziano origini polinesiane dei primi abitanti, abilissimi marinai che con le loro fragili barche a bilanciere arrivarono intorno al 400 d.C. Vi furono poi successive ondate di popolamento, che possono spiegare la divisione, sempre secondo una leggenda, dell’antica popolazione nei due gruppi delle Corte e Lunghe Orecchie. Inoltre, probabilmente vi furono anche contatti occasionali con civiltà preincaiche. Il culmine della civiltà dei moai si ebbe fra il 1000 e il 1500 d.C., poi il declino e lo sviluppo del culto dell’Uomo Uccello, ancora celebrato fino alla metà del secolo scorso.
Ma anche se la cultura di Rapa Nui appartiene più al passato che al presente, e si sono trovate spiegazioni verosimili a molti dei misteri dell’isola, per il viaggiatore i muti ed enigmatici moai continuano ad essere fonte di profonda fascinazione e magia: le loro orbite vuote, rivolte al cielo, invitano a guardare oltre, alle stelle e all’universo, e oltre ancora, a noi stessi e al mistero dell’esistenza.
Di Anna Maspero Da Marcopolo Guida Viaggi N.7 / 2000

miriantini
Gentile sig.ra Maspero saprebbe dirmi da quale libro è tratto questo testo di Loti e chi è l’editore? grazie
Il grande viaggiatore Pierre Loti scriveva: “C’è nel mezzo del Grande Oceano, in una regione dove non si transita mai, un’isola misteriosa. Essa è piena di alte statue mostruose, opere di razze sconosciute, oggi scomparse. Il suo passato rimane un mistero”.
A.M.
mi dispiace… questo articolo l’ho scritto oltre dieci anni fa e allora ero meno “sistematica” ne raccogliere le fonti delle citazioni…